Dipendenza da alcol
Il paziente problematico nell’ambulatorio del medico di famiglia

In Veneto a pesare, e non poco, è soprattutto l’abitudine. Ma la dipendenza da alcol è un fenomeno dilagante in tutta Italia. Le donne e i ragazzi, soprattutto femmine, sono le categorie più esposte al rischio perché spesso si sottovalutano il binge drinking, assumere cioè diverse bevande alcoliche in un intervallo di tempo più o meno breve, e il consumo moderato abituale, anche senza ubriacarsi davvero.
Dati, analisi e possibili soluzioni sono stati approfonditi lo scorso 10 giugno in un convegno sul tema organizzato per l’OMCeO veneziano dal presidente Giovanni Leoni e da Alessandro Pani, direttore del dipartimento per le Dipendenze dell’Ulss 3 Serenissima. Queste le cifre emerse più allarmanti:
- nel 2022 sono aumentate del 2,5% rispetto agli anni precedenti le consumatrici adulte;
- il 9% degli 11enni maschi e il 5% delle coetanee femmine dichiara di aver bevuto alcolici almeno un giorno nell’ultimo mese, con il sorpasso per le 13enni e le 15enni che bevono di più dei loro coetanei maschi;
- sono ben 220 le malattie correlate al consumo di alcol;
- 35.307 nel 2021 gli accessi ospedalieri caratterizzati da una diagnosi attribuibile all’alcol, oltre 3.100 gli accessi di minori in Pronto Soccorso di cui il 18% femmine e l’8% maschi;
- in Italia un giovane su 4 tra i 15 e i 29 anni muore a causa dell’alcol;
- 13 milioni le persone in Italia – cifra probabilmente sottostimato – con disturbo da alcol, di cui un milione 260mila giovani e, tra questi, 615mila minorenni. 1,3 milioni in Veneto, il 10% del totale nazionale;
- 952 le persone attualmente assistite dall’Ulss 3 Serenissima, di cui 251 donne e 701 uomini, con 249 nuovi pazienti presi in carico nel 2024.
Fondamentale allora per non cadere nella dipendenza, hanno spiegato gli esperti, intercettare il prima possibile i comportamenti a rischio. In questa direzione un ruolo chiave può giocarlo il medico di famiglia, anche grazie al rapporto di fiducia che instaura con i propri pazienti. Ne abbiamo parlato con il dottor Sebastiano Bianchi, che lavora in centro storico a Venezia e che proprio a quel convegno ha portato la propria esperienza.
Dottor Bianchi, come fa il medico di famiglia a capire se un suo paziente è a rischio?
«Solo gli alcolisti in stato avanzato in realtà hanno sintomi. In quasi tutti gli altri pazienti, quelli a rischio, invece i segnali non sono mai presenti. Quindi i casi sono due: o è la persona che me ne parla perché riconosce già di avere un problema, oppure, guardando i suoi esami del sangue, riscontro delle anomalie, soprattutto riguardo gli enzimi epatici o l’anemia macrocitica. In questo caso chiedo direttamente al paziente quanto alcol consuma e lui di solito, dato che si fida di me, risponde onestamente. Magari è inconsapevole di avere un problema e lo scopre così».
Qual è il consumo di alcol considerato a rischio?
«Gli studi ematologici ci dicono che un paziente che pesa 70 chili e ha 40 anni, per avere già un’iniziale anemia megaloblastica consuma almeno una bottiglia di vino al giorno. Poi, chiaramente, se è un paziente più anziano, o una donna, o una donna anziana il parametro si riduce. Con una bottiglia di vino al giorno non è neanche più un “paziente a rischio”, si parla già di dipendenza».
Una dipendenza, però, di cui le persone non si rendono conto...
«Ci sono pazienti che non hanno la cultura per capire che bere così è troppo. Manca loro questo dato che poi, però, acquisiscono con il nostro aiuto. E devo dire che la maggior parte di loro acquisisce poi anche la voglia di correggersi. Poi c’è una minoranza che mi dice: “No, senza l’alcol la mia vita non è qualitativamente accettabile”. Con queste persone fai più fatica perché magari non vogliono andare dallo psicologo o al SerD… Sono quelli che poi rimangono alcolisti. Infine ci sono gli anzianotti per cui bere è ormai è un’abitudine e non se la tolgono più. Cosa fai? Li segui un po’ alla volta con un obiettivo diverso: non la prevenzione, ma la gestione del paziente, cercando di capire quanto l’alcol impatta sulla loro salute e se toglierlo può migliorare la loro qualità di vita. Ma a uno che ha 85 anni, ha sempre bevuto e tutto sommato non sta poi così male, è impossibile toglierglielo... Solo se comincia ad avere qualche patologia o qualche problema serio, si corre ai ripari».
Ma quali possono essere i motivi scatenanti che portano la persona a rifugiarsi nell’alcol?
«Dipende dal paziente: se c’è una problematica, in realtà la persona è più facile da gestire. Perché nel momento in cui si identifica il problema, si identifica anche una possibile soluzione. Quando, invece, tutto nasce dall’abitudine o, magari, anche da condizioni positive, le cose si complicano. Pensiamo al giovane: va a bere con gli amici un giorno, due giorni, tre giorni, quattro e piano piano diventa dipendente dalla sostanza alcolica. Lui non percepisce il problema, associa il bere a una cosa bella che non è minimamente intenzionato a ridurre. Una persona, invece, che beve perché è depressa, chiaramente vuole anche venirne fuori».
Una volta capito che un paziente è a rischio, come ci si approccia con lui?
«Io programmo una serie di visite ed esami cadenzati. Poi gli propongo degli obiettivi che non vadano oltre le sue possibilità. A una persona che beve due bottiglie di vino al giorno non posso dire: smetti del tutto dall’oggi al domani. Però voglio che magari in 6 mesi arrivi a una bottiglia e allora io gli faccio un’altra visita e altri esami per capire se piano piano sta migliorando. Questo, ovviamente, per pazienti che non abbiano sviluppato patologie secondarie che vanno, invece, curati o indirizzati allo specialista di di competenza».
E che risultati si ottengono?
«Per chi non è consapevole del problema, nel momento in cui glielo si fa presente e la persona riduce l’alcol, si sente meglio. Per quello che ho potuto vedere, poi continuano sulla buona strada. In una visione prospettica interrompi un processo che, se non avesse visto nessuno, magari avrebbe portato a una cirrosi epatica nel giro di 5-6 anni».
Tornando a parlare dei giovani quali sono per loro le difficoltà?
«Beh, abbiamo già detto che la socialità è uno dei fattori determinanti. Più uno ha amici, più è una persona piacevole, più è esposto a questa problematica perché ha più possibilità di ritrovo e quindi di bere. Poi i giovani non li vediamo quasi mai in ambulatorio perché stanno bene e in generale non hanno sintomi… C’è anche un altro aspetto: per loro qual è l’alternativa a Venezia? Ci sono solo bar. Non c’è una sala giochi, che ne so, un posto per giocare a bowling, un campo di calcetto, di tennis o di paddle che chiude a mezzanotte, un altro punto di sfogo al loro desiderio di vivere la socialità. Uno non ha altro e si siede al bar se ce ne sono 50 di aperti… Quindi per la prevenzione del fenomeno dei ragazzi bisogna anche costruire alternative sociali».
Quali sono i comportamenti più a rischio per loro?
«Il binge drinking è sicuramente un problema: uno beve il sabato e beve tanto. Ma un altro problema è che hanno un’ampia quantità di tempo libero e lo usano per bere più volte a settimana. Se tu fai l’aperitivo tutte le sere con lo spritz non è più binge drinking, è qualcosa di cronico. Poi esci al sabato e bevi ancora di più…».
Quali sono i punti di forza di un medico di famiglia per gestire questi pazienti?
«Per prima cosa il medico deve essere carismatico, deve dimostrare al paziente che può seguirlo nelle sue indicazioni e trarne beneficio. Poi bisogna anche avere a portata di mano qualche studio clinico chiave da poter usare soprattutto con i giovani che non si fidano della tua parola solo perché sei tu a dirla: hanno bisogno anche di un riscontro oggettivo o scientifico. In realtà non serve molto altro: se il paziente si sente meglio dopo i consigli che gli dai all’inizio e che lui mette in pratica, poi ti segue. Ai ragazzi, infine, dobbiamo dimostrare che i loro comportamenti faranno dei danni alla loro salute: sono tutte persone di una certa cultura, molti di loro puntano a obiettivi di salute e su questo bisogna far leva».
Ma, per concludere, perché si beve così tanto in Veneto?
«Da quello che vedo, ci sono molti più pazienti che bevono per abitudine che per depressione o per qualche problema sociale. Siamo fortunati, viviamo in una regione ricca e la maggior parte di chi ha l’abitudine del bere sta economicamente bene. A cambiare, allora, deve essere prima di tutto il paradigma culturale».
Chiara Semenzato, ufficio stampa FIMMG Venezia
Per chi volesse approfondire sul sito dell'Ordine il resoconto del convegno e i materiali disponibili: